Durante una seduta di qualche mese fa, una paziente che seguo in psicoterapia già da diversi anni, si presenta particolarmente angosciata e mi racconta, fra le lacrime, che pochi giorni prima i carabinieri si erano presentati a casa sua cercando le prove che dimostrassero che il figlio adolescente di lei fosse effettivamente un micro spacciatore di hascisc così come riportato da diversi coetanei.
I militari, avendo trovato una piccola bilancia nell’armadio del ragazzo si erano detti soddisfatti e se ne erano andati. Una volta rincasato, il giovane era stato informato dalla madre dell’accaduto ed era stato invitato a dare una spiegazione; il ragazzo, con fare baldanzoso, si era dichiarato parzialmente estraneo alla vicenda, ammettendo un uso sporadico di fumo ma negandone con convinzione la vendita. La mia paziente si trovava ora fra due fuochi: da una parte il marito e padre del ragazzo che non gli credeva e che tacciava lei di ingenuità, dall’altra però il figlio che aveva ammesso per la prima volta di fare uso di sostanze ma che giurava di non essere implicato nella vicenda dello spaccio.
A chi doveva credere? Come doveva comportarsi?
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