Bugie: a chi dobbiamo credere?

Durante una seduta di qualche mese fa, una paziente che seguo in psicoterapia già da diversi anni, si presenta particolarmente angosciata e mi racconta, fra le lacrime, che pochi giorni prima i carabinieri si erano presentati a casa sua cercando le prove che dimostrassero che il figlio adolescente di lei fosse effettivamente un micro spacciatore di hascisc così come riportato da diversi coetanei.

I militari, avendo trovato una piccola bilancia nell’armadio del ragazzo si erano detti soddisfatti e se ne erano andati. Una volta rincasato, il giovane era stato informato dalla madre dell’accaduto ed era stato invitato a dare una spiegazione; il ragazzo, con fare baldanzoso, si era dichiarato parzialmente estraneo alla vicenda, ammettendo un uso sporadico di fumo ma negandone con convinzione la vendita. La mia paziente si trovava ora fra due fuochi: da una parte il marito e padre del ragazzo che non gli credeva e che tacciava lei di ingenuità, dall’altra però il figlio che aveva ammesso per la prima volta di fare uso di sostanze ma che giurava di non essere implicato nella vicenda dello spaccio.

A chi doveva credere? Come doveva comportarsi?

bugieAlla fine, ragionando insieme, la paziente aveva deciso di dare credito alle parole del figlio e di recarsi, avendo prima informato il ragazzo, dai carabinieri per cercare di capire meglio quale fosse l’accusa e le prove a suo carico. Dopo qualche mese la vicenda si è conclusa nel migliore dei modi: il giovane è stato scagionato da qualunque accusa perché era in relato stato vittima di una calunnia da parte di un coetaneo invidioso.

Il rapporto fra la mia paziente ed il figlio da quel momento in avanti è decisamente migliorato, divenendo nel tempo sempre più onesto e aperto.

Ho voluto utilizzare questa vignetta clinica per introdurre il tema delle bugie che tanto spesso occupa le menti ed i discorsi di noi genitori. Sovente si sente dire: “mio figlio mi racconta un sacco di balle…” e di continuo le madri s. i interrogano sul da fare: “cosa devo dirgli quando scopro che mi ha mentito?”

Innanzitutto vorrei premettere che per un bambino, verso i 3-4 anni di età dire delle bugie è assolutamente fisiologico ed è indice di un corretto sviluppo di alcune facoltà mentali.

Attraverso la bugia i bambini costruiscono un proprio spazio segreto, un mondo a metà strada tra la realtà e la fantasia, un mondo che può essere riservato a riporre sentimenti o emozioni che hanno paura di mostrare o di cui sono gelosi o si vergognano. Per questo la mamme ed i papà non devono preoccuparsi o peggio sentirsi traditi e imbrogliati dalle piccole innocenti bugie.

Le bugie a volte nascondono un desiderio. Se c’è un problema si dovrebbe cercare di capire perché il bambino ha mentito. Se le bugie nascondono un problema, è utile proporre una soluzione alternativa.

Inoltre, a mio avviso, bisognerebbe cercare di non mentire mai ai figli anche quando loro pongono domande difficili o imbarazzanti. Se il genitore gli mente si sente autorizzato a farlo anche lui. La sincerità, così come la menzogna, i bambini la imparano dall’esempio dei genitori!

Di solito, infatti, sono proprio i genitori che per primi dicono sistematicamente bugie ai bambini, e non viceversa. Magari pensando di far bene, talvolta per proteggerli da qualcosa di troppo penoso, talvolta per leggerezza, o per cavarsela a buon mercato, o perché temono di non saper tradurre in termini comprensibili un pensiero o un’esperienza difficili. Quasi sempre perché non si accorgono di quanta sia la “fame di verità” che i bambini hanno.

E così i bambini interiorizzano una modalità menzioni era di rapportarsi con gli altri.

Durante l’adolescenza, il passaggio fra realtà fantasmatica e irreale e pensiero adulto concreto diventa cruciale: i ragazzi per la prima volta devono fare i conti con i limiti che la realtà impone e rinunciare così alla visione onnipotente che li ha accompagnati da bambini. Le loro azioni hanno ora una conseguenza, che  se non è concreta e tangibile si muterà in senso di vergogna e inadeguatezza. L’esperienza di riconoscersi e di diventare riconoscibile è l’esperienza primaria di costruzione di sé, si pone all’origine dell’esperienza psichica, e richiede, per potersi realizzare pienamente, un contesto intersoggettivo  o, più semplicemente, il bisogno assoluto dell’altro. Come la psicoanalisi ci ricorda, questo altro che abbiamo bisogno di incontrare per vivere è, in origine, la madre, o per meglio dire un contesto primario rappresentato dall’apparato delle “cure materne” senza le quali “una simile organizzazione … non potrebbe mantenersi in vita neanche per un breve momento”  (Freud, 1911).

Il noto proverbio “Chi sempre mente vergogna non sente” appare particolarmente calzante nel nostro discorso e ci aiuta a capire il ricorso così massiccio alle bugie dei nostri ragazzi. Come ci suggerisce Bion: “la bugia non è limitata al campo del pensiero, ma ha una controparte nel campo dell’essere: è possibile essere una bugia” (1970).

Nella vicenda che ho raccontato, il ragazzo aveva deciso di rinunciare per la prima volta allo scudo che le bugie, che solitamente raccontava ai genitori, gli offrivano. Si è esposto alla sua vergogna, ha ammesso un comportamento che sapeva essere sbagliato e fortemente disapprovato dai genitori, per questo ho ritenuto importante credergli anche sulla parte riguardante il reato di cui si diceva –  a ragione – assolutamente estraneo. La madre ha corso il rischio di essere ingannata ma ha anche ottenuto di diventare un interlocutore degno di fiducia per il figlio che ha capito, sperimentandolo sulla propria pelle, che nel momento in cui la verità prende il posto della menzogna lui guadagna l’alleanza con il mondo adulto.

Bibliografia

Bion W. R. (1970) Attenzione e interpretazione, una prospettiva scientifica sulla psicoanalisi e sui gruppi. Armando Editore, 1973.

Freud S. (1911) Precisazioni su due principi dell’accadere psichico. Opere 6, 453-460.

Autore: Dott.ssa Maddalena Mantelli, Psicologa e Psicoterapeuta dello Studio Psicologia Gentilino